giovedì 20 giugno 2013

Corpo e mente ...

Il raffreddore si secca quando il corpo piange.
Il mal di gola si manifesta quando non è possibile comunicare le proprie tristezze.
Lo stomaco brucia quando i problemi non riescono ad uscire.
Il diabete ti invade quando la solitudine fa male.
Il corpo ingrassa quando l' insoddisfazione ti tartassa.
Il mal di testa ti angustia quando i dubbi aum...
entano.
Il cuore desiste quando il senso della vita sembra finire.
L' allergia appare quando il perfezionismo diventa intollerabile.
Le unghie si spezzano quando le difese vengono minacciate.
Il petto si comprime quando l' orgoglio ti schiavizza.
Il cuore subisce un infarto quando sopraggiunge l' ingratitudine,
La nevrosi ti paralizza quando "il bimbo dentro" diventa tiranno.
La febbre brucia quando le difese abbattono i confini dell' immunità.

La piantagione è libera; il raccolto... obbligatorio!

Faccia attenzione a quello che sta piantando, perché sarà quello che raccoglierà.
Sia Felice!

venerdì 14 giugno 2013

LE TERAPIE ESPRESSIVE NELLE DEMENZE

L’Italia sta diventando un paese di anziani. Spesso, con l’anziano, arriva a anche quella che viene definita demenza. La demenza è una sindrome clinica (insieme di sintomi), cronica e progressiva, dovuta ad una malattia che colpisce il cervello e che comporta la degenerazione di: facoltà mentali (memoria, linguaggio, ragionamento, riconoscimento oggetti e persone); affettività ed emotività (depressione, ansia ed angoscia); comportamento e personalità (agitazione, aggressività, reazioni paranoiche ed apatia). La demenza è una malattia che non soltanto affligge il malato, ma si ripercuote emotivamente anche su coloro che l’assistono, come il coniuge, i figli, i familiari ma anche gli assistenti familiari. Talvolta, l'assistenza, può essere un compito estremamente difficile e impegnativo. È necessario pianificare l’impegno che le figure che ruotano attorno all’anziano con demenza devono investire nell’assistenza del malato. È importante conoscere le proprie forze e le proprie energie e sapere che non si è da soli nell’affrontare la patologia. Inoltre, è fondamentale capire che chiedere aiuto non significa non essere in grado di assistere la persona, ma riconoscere e rispettare i propri limiti e progettare un tipo d’assistenza che veda coinvolti più soggetti. Capire le proprie emozioni può essere di aiuto nella gestione del malato, ma anche per se stessi.
Negli ultimi anni si sta assistendo a un aumento di richieste di interventi che impiegano le terapie espressive, le terapie non farmacologiche, nelle loro diverse modalità, in progetti preventivi, riabilitativi e terapeutici. Le terapie non farmacologiche favoriscono una stimolazione delle capacità cognitive residue dei pazienti come, ad esempio, i processi della memoria (cognizioni). In altre situazioni, incidono sulle problematiche comportamentali dei pazienti affetti ad esempio da demenza senile (comportamenti). Una terza area riguarda l’ambiente che in questo caso ha una forte incidenza per la gestione dei disturbi cognitivi e comportamentali, si parla infatti di ambiente protesico, che aiuta a compensare tali deficit. Sono state inserite in fase sperimentale la musicoterapia individuale e di gruppo, la musicoterapia ambientale, la terapia della bambola, i laboratori cognitivi – alimentari e la sand - therapy (terapia della sabbia).
Le terapie non farmacologiche, in sinergia con le terapie che prevedono l’utilizzo di farmaci, migliorano in modo concreto la qualità di vita dei pazienti. Spesso si parla a livello teorico di migliore qualità di vita, di migliorare lo stato psicofisico delle persone, senza collegamenti concreti con gli aspetti sociali e relazionali dell’accudimento. La cura inizia dal saper ascoltare e il saper ascoltare è la base di partenza delle terapie non farmacologiche e della relazione d’aiuto.

13 giugno 2013, Psicologica...mente, rubrica della Dr.ssa Valeria Catufi

OPERATORI DELL'EMERGENZA: I NOSTRI SUPEREROI MA ...

Durante i gruppi di sostegno che svolgo con gli operatori dell’emergenza, uno di loro ha affermato: “Se faccio un confronto fra la persona che sono quando parto e la persona che sono quando rientro, posso dire che sono due persone diverse. Parto carico e torno sfinito. Tanto che a volte mi sento di aver bisogno anche io di qualcuno che mi appoggi la mano sulla spalla”.

Operatori dell’emergenza: i nostri supereroi ma …
Durante un evento critico, quando sentiamo parlare di vittime siamo soliti pensare a coloro che hanno subito in prima persona un danno (persone estratte dalle macerie), ai parenti dei superstiti, alla comunità coinvolta, ma mai pensiamo ai soccorritori (volontari e professionisti). Questi, in psicologia dell’emergenza, vengono definiti vittime di terzo tipo.
Gi operatori dell’emergenza (operatori 118, VVF, infermieri, medici, Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, …) ai nostri occhi appaiono sempre come dei supereroi, pronti a salvarci da ogni situazione. È importante però sapere che anche l’operatore attraversa delle fasi di emergenza, delle fasi di intervento alla crisi. La prima è la fase di allarme, si ha l’impatto con l’evento traumatico, emerge in questo caso irrequietezza, senso di inadeguatezza. Una testimonianza di un operatore intervenuto durante il terremoto all’Aquila fa capire cosa sentiva durante questa fase: “Avevo tanta paura di sentirmi tra i piedi o essere inadeguata”. Successivamente, si ha la fase di mobilitazione,  dove vi è un’attivazione psicofisiologica e la creazione di aspettative e rappresentazioni cognitive volte a indurre azioni corrette ed efficaci. Relativamente a questa fase, un operatore disse: “All’inizio non si sapeva bene cosa si poteva fare e cosa non. Poi abbiamo deciso di improvvisare”. Si passa poi alla fase dell’azione, dove gli operatori si dedicano con grande dispendio di energie all’intervento per il tempo necessario: “Ci siamo resi disponibili per i piccoli lavori rimasti incompiuti”. L’ultima fase, ma la più importante e da tenere sotto controllo, è la fase della smobilitazione che va dalla fine dell’intervento al ritorno alla routine. I contenuti psichici negativi inibiti durante la fase di azione riemergono proprio in questa fase: “Ho avuto il calo dell’adrenalina quando ho visto un campo sportivo senza tende (in riferimento al terremoto dell’Aquila). ho capito di rientrare nella normalità”, “Molta tristezza negli ultimi giorni. Io parlo molto e durante il viaggio non ho detto una parola”.
Come la vittima anche il soccorritore, poiché esso stesso definito vittima, è sottoposto a stress. Le difficoltà possono essere sia fisiche che psichiche e vanno da un leggero disagio fisiologico a vere e proprie patologie. È importante sapere e conoscere queste fasi e altrettanto rilevante è chiedere un sostegno quando ci si sente stanchi e incapaci di affrontare tali situazioni. Questo perché poi non si è in grado di prestare aiuto nel migliore dei modi mettendo anche in pericolo la propria incolumità, oltre a quella degli altri.


27  aprile 2013, Psicologica...Mente, rubrica della Dr.ssa Valeria Catufi

LE FIABE SONO SOLO PER I PICCOLI?

Durante un laboratorio che prevede l’utilizzo della fiaba con pazienti psichiatrici adulti, mi hanno domandato: “Ma utilizzare le fiabe con gli adulti non è infantile?”

Le fiabe sono solo per i piccoli?
I motivi per cui ci si avvicina alle fiabe, anche da adulti, oltre che da bambini/e, possono essere molti. Fin dall'antichità erano note le potenzialità contenute in storie e racconti, basti pensare che Platone, attraverso 'il mito della caverna' dispiegò la sua intera teoria filosofica. Da sempre si conosce quanto una narrazione possa alleviare il dolore, ridurre l'ansia, scacciare le paure, la rabbia, stimolare forza e volontà. Attraverso le narrazioni si trasmettono regole, precetti educativi, credenze e valori sociali/individuali. Favole e fiabe sono metafore delle norme comunemente condivise: si pensi alle fiabe per adulti di Esopo e di Fedro che si concludono sempre con una morale.
Le fiabe sono utilizzabili quando si cerca di spiegare un concetto astratto, quando si vogliono trasmettere nozioni o dare informazioni: si lasciano scoprire poco alla volta, rendendo l'informazione o il concetto più interessante e mantenendo sempre l'attenzione dell'ascoltatore, capaci come sono di parlare un linguaggio universalmente comprensibile. Secondo la concezione degli allievi di Rudolf Steiner, un antroposofista, con il racconto della fiaba si esce per un momento, ogni giorno, dalla frenesia del tempo quotidiano, dando spazio alla calma di chi narra e al silenzio di coloro che ascoltano.
C'è un genere di fiabe che può essere definito sociale, perché al loro interno vengono analizzati, anche sotto forma fantastica, alcuni fra i problemi e i conflitti dei nostri tempi, spesso poco chiari ai bambini ma ben comprensibili agli adulti. Basta pensare a 'Il Piccolo Principe' di Antoine De Saint-Exupèry, che incontra uomini d'affari schiavi del denaro, spregiudicati e privi di ogni sensibilità umana e con potenti re che non considerano l'uomo una persona ma una cosa, e che finisce con il rimanere da solo. Il Piccolo Principe insegna il valore di 'addomesticare' nel senso di 'creare dei legami' con le creature che ci circondano valorizzandole, anche se sembrano piccole, insignificanti, uguali a tante altre, poiché portatrici di vita. Fare fiabe non significa sfuggire dal mondo, ma trovare delle chiavi per capire la realtà, l'essenza della vita.
Le fiabe sono relazione, rapporto e comunicazione; la loro narrazione può avere effetto terapeutico in quanto si prende cura del rapporto con il bambino e, dal momento che con le fiabe ci si dedica a qualcuno, si rinsaldano delle relazioni esistenti. Le fiabe e le favole favoriscono elasticità emotiva, data dal passaggio da un contesto relazionale esterno a una realtà personale interna, da un collegamento tra reale e immaginario, passando dall'esperienza concreta di invenzioni alla riflessione collettiva. Attraverso la fiaba si può tradurre e trasmettere al bambino, ma anche all’adulto, qualunque messaggio concreto, ma anche astratto, e quindi più difficile per lui da comprendere: un sentimento, un valore, un'idea. Percorrere una fiaba è come entrare in un bosco e lasciarsi trascinare dai suoi colori e dai suoi profumi: è un mondo incantato, dove tutto è possibile, ma non prevedibile, scontato o banale, è un mondo dove il rito è tutt'uno con il magico, dove l'imprevisto diventa determinante, dove la realtà è la fantasia e la fantasia è la realtà, dove la potenza dell'immaginario non diventa onnipotenza, ma genera possibilità, apre delle porte, traccia delle strade, favorisce delle scelte, prospetta cioè dei percorsi evolutivi.
Le storie possono essere considerate come un ponte gettato dall'età adulta verso l'infanzia e viceversa, tramite il quale è possibile passare dall'una all'altra dimensione senza alcuna limitazione.
Tutte le fiabe possono essere usate a scopo terapeutico perché riproducono tappe fondamentali dello sviluppo individuale e diventano metafore della storia dell'umanità, ma possono essere anche un metodo per rilevare i tratti della personalità infantile e per avere un quadro più completo sulla maturazione dell'individuo. In ogni racconto si possono riconoscere caratteristiche evolutive come la successione temporale, la gradualità, il superamento dei vincoli esistenti, la capacità di ampliare il proprio punto di vista, la capacità di arricchire la propria dimensione cognitiva, la capacità di arricchire la propria dimensione emotiva.
Nel gruppo fiaba, dunque, si incontrano due aspetti apparentemente slegati tra loro, ma in realtà fortemente interconnessi: i fattori terapeutici del gruppo e il valore educativo delle fiabe. Entrambi, combinati insieme, portano ad un giovamento nel paziente psichiatrico.
Dunque, le fiabe, sono solo per bambini?

9 marzo 2013, Psicologica...Mente, rubrica della Dr.ssa Valeria Catufi

MENTE UMANA ED EMERGENZA

Come si comportano le persone nelle situazioni di emergenza?
Ci sarà capitato nella vita di sentire espressioni come “Ho avuto sangue freddo!” o “Si è fatto prendere dal panico!” da persone che hanno vissuto un evento particolarmente minaccioso. Questi modi di dire, che sono ormai entrati nel nostro linguaggio comune, fanno intuire la diversità delle risposte umane dinnanzi a un pericolo. In emergenza si parla del riflesso “fight or flight” ovvero, “combatti o fuggi”. Se ci pensiamo bene, non serve un evento calamitoso per farci combattere o fuggire, ma anche nella vita di tutti i giorni ci sono delle microemergenze che ci fanno riflettere e decidere se affrontare la situazione o se scappare da essa. Ma perché o lottiamo o scappiamo? Per mettere in atto un’azione di fuga è necessario prima di tutto percepire l’evento, capire di cosa si tratta, prendere una decisione e, alla fine, metterla in atto attraverso un’azione. Ognuno di queste fasi richiede un certo tempo e, durante una situazione di emergenza, i tempi sono molto rapidi e non permettono alle volte di soffermarsi a ragionare sul da farsi. La velocità di questo processo dipende dalla disponibilità e dall’accessibilità di informazioni che abbiamo relative a quelle situazioni (o situazioni simili): se abbiamo già vissuto un’esperienza di emergenza e quindi sappiamo come affrontarla, la velocità di attuazione di una risposta sarà massima effettuando, così, un’azione immediata. Se nel nostro magazzino cognitivo ci sono più risposte attuabili a quell’evento sarà necessario più tempo per prendere la decisione migliore; se non esiste in memoria una risposta comportamentale appropriata dovrà essere creata e questo richiede ancora più tempo. A volte, siamo talmente impreparati per la nuova situazione che non siamo nemmeno in grado di generare una condotta adeguata. E in questo caso cosa succede? Rimaniamo paralizzati, ovvero abbiamo un totale (o parziale) congelamento dei movimenti impedendo così la messa in atto di qualsiasi comportamento. Questa reazione prende il nome di freezing.
Ma l’unione fa la forza? Non sempre è così. Quando ci si trova con altre persone, ci sono altri due processi che portano all’inazione di fronte a un pericolo. Si parla di ignoranza pluralistica quando, all’interno di un gruppo, ciascuno pensa che gli altri abbiano più informazioni sulla situazione e quindi, di fronte a un evento ambiguo, le persone osservano il comportamento altrui per cercare di interpretarlo senza considerare che anche gli altri fanno lo stesso. Immaginiamo una scena di vita quotidiana: siete al supermercato e improvvisamente sentite un forte rumore. La prima reazione che avrete sicuramente è quella di guardare il salumiere, le altre persone accanto a voi per capire cosa sta succedendo. C’è, dunque, un guadarsi attorno per valutare le risposte degli altri e poi decidere. Un altro processo è quello della diffusione di responsabilità che avviene quando una persona, per il solo fatto di trovarsi assieme ad altri, non ritiene di dover intervenire poiché crede sia responsabilità altrui. Immaginiamo il solito supermercato: un anziano mentre aspetta di prendere la carne cade a terra. Noterete, almeno per i primi attimi, che nessuno si avvicina perché tanto sappiamo che lo farà qualcun altro.
Quindi, la decisione di allontanarsi o di affrontare un pericolo (o qualsiasi evento) dipende non solo da caratteristiche personali, ma anche da quelle situazionali e psicosociali.
Sulla base di quanto detto, le esercitazioni che vengono svolte a lavoro, a scuola e in altri ambiti sono importanti proprio perché l’acquisizione di conoscenze e abilità è cruciale nel produrre sequenze automatiche per prevenire il rischio di rimanere bloccati davanti al pericolo.

9 febbraio 2013, Psicologica ...Mente, rubrica della Dr.ssa Valeria Catufi